mercoledì 17 settembre 2014

OMOSESSUALITA’ IN CATULLO E TIBULLO

Questo articolo è dedicato all'omosessualità, così come essa appare in Catullo (84 a.C. – 54 a.C.) e in Tibullo (54 a.C.- 19 a.C.).
Catullo, in genere, è ricordato come un ragazzo giovane follemente innamorato della sua bella Lesbia. In realtà Lesbia si chiamava Clodia, il padre, Appio Claudio Pulcro, era stato Console nel 79 a.C., il fratello di Clodia era Publio Clodio Pulcro, Tribuno della plebe e temuto capo del partito cesariano. Clodia aveva sposato Quinto Metello Celere, Proconsole della Gallia Cisalpia, Clodia era una donna di mondo ben inserita nei livelli più alti della società romana, aveva 10 anni più di Catullo. Cicerone, acerrimo nemico di Clodio, nella “Pro Celio” difende il suo amico Marco Celio Rufo dall’accusa di violenza politica e sostiene che le accuse sono fondate solo sulle farneticazioni di Clodia, che Cicerone tratteggia come la peggiore puttana di Roma. Che Catullo fosse veramente innamorato di Clodia è pure possibile, se si pensa che, anche se nato nella Cisalpina, Catullo era di famiglia ricchissima e che ebbe ospiti a casa sua personaggi come Giulio Cesare e Metello Celere.
Ma non voglio disperdermi su questioni storiche generali allontanandomi dal mio obiettivo.
Prima di passare all’esame dei testi vorrei fare una breve premessa. L’omosessualità non è un fenomeno di tipo culturale che si può spiegare sulla base di tradizioni o di particolari condizioni sociali, ma è un dato di fatto antropologico, che in un certo senso prescinde dalle culture nelle quali si manifesta. Intendo dire che solo a livello sociale si può dire che l’omosessualità in età greco-romana sia diversa dalla omosessualità nell’età contemporanea, in realtà sono diverse le regole sociali, le modalità, i giudizi sociali, ma il fenomeno in sé è esattamente lo stesso, può essere certo compresso o condizionato in modo molto vario, ma la sostanza di base resta sempre la stessa. È per questo che parlare di omosessualità in Grecia o a Roma come pederastia è di fatto poco realistico. Anche in età greca esisteva l’omosessualità paritaria tra adulti e così nel mondo romano. La particolare insistenza sui ruoli sessuali nel modo greco-romano indica che le regole sociali anche in campo di omosessualità erano stabilite esclusivamente sulla base di concetti nati in ambito eterosessuale.
Come ho avuto modo di chiarire in altri articoli di “Gay e Storia”, ad esempio, il rapporto tra Euripide e Agatone non può certo ridursi sotto le categorie della pederastia. Lo stesso dicasi per il rapporto tra Quinto Lutazio Catulo e Roscio o tra Mecenate e Batillo. Intendo dire che al di là delle teorizzazioni più o meno influenzate da Platone, la vita vera dei singoli omosessuali non era certo basata sulla pederastia. E anche quando si parla di pederastia e di efebi, non si tiene conto che l’efebia andava dai 18 ai 20 anni, si trattava quindi di giovani adulti. Meleagro di Gadara parla di un sogno erotico in cui immagina di essere accanto ad un efebo, specificando che si tratta di un ragazzo di 18 anni.
Per chiarire il concetto partiamo dall’Epigramma 25 di Callimaco [1] questo è il testo greco:
ὤμοσε Καλλίγνωτος Ἰωνίδι μήποτ᾽ ἐκείνης
ἕξειν μήτε φίλον κρέσσονα μήτε φίλην.
ὤμοσεν: ἀλλὰ λέγουσιν ἀληθέα τοὺς ἐν ἔρωτι
ὅρκους μὴ δύνειν οὔατ᾽ ἐς ἀθανάτων.
5νῦν δ᾽ ὁ μὲν ἀρσενικῷ θέρεται πυρί: τῆς δὲ ταλαίνης
νύμφης ὡς Μεγαρέων οὐ λόγος οὐδ᾽ ἀριθμός.[2]
Questa è la traduzione di G.B. D’Alessio:
“Giurò Callignoto a Ionide che mai più di lei
Avrebbe avuto caro un amico o un’amica
Giurò. Ma dicono bene: i giuramenti d’amore
Non raggiungono l’orecchio degli dei.
Ora lui d’amore per un ragazzino brucia, e della povera
Fanciulla, come dei Megaresi, non si fa conto né stima.”[3]
La traduzione è poetica ma tanto libera da aver introdotto un “ragazzino” che nel testo greco con c’è.
Invece di tradurre “Ora lui d’amore per un ragazzino brucia” bisognerebbe tradurre: “Si consuma al fuoco maschile” traduzione letterale che sembra avere ben poco a che vedere con la pederastia o che è almeno neutra circa l’età dell’amato.
Tanto doverosamente premesso, torniamo a Catullo.
In realtà Catullo è tra i poeti romani che usano il linguaggio più libero, infarcito di riferimenti sessuali e specificamente omosessuali di ogni genere.
Così apostrofa i suoi amici che leggendo i suoi versi lo ritengono poco virile:
Io ve lo ficcherò su per il culo e poi in bocca,
Aurelio succhiacazzi e Furio frocia sfondata,
che per i miei versetti pensate, solo perché
son teneri e gentili, che io sia poco pudico e virtuoso.
Giacché è appropriato per un poeta onesto esser casto
con sé stesso, ma nulla è dovuto dai suoi versetti;
i quali hanno ora e per sempre arguzia e grazia,
quando son tenerelli e un poco spudorati,
e riescono a risvegliar un certo pruriginoso desiderio,
non dico nei ragazzi, ma in quei vecchi pelosi
incapaci ormai d’inarcar la schiena rattrappita.
Voi, che avete letto dei miei innumerevoli baci,
pensate forse che io sia uomo perverso e poco virile?
Credetemi, ve lo ficcherò su per il culo e poi in bocca.[4]
Nel carme 21 si rivolge allo stesso Aurelio che tentava in ogni occasione di insidiare il ragazzo amato da Catullo, probabilmente il Giovenzio di cui parleremo nel seguito.
Aurelio, padre di tutti gli arrapati,
non solamente di questi che conosci, ma di tutti quelli
che furono che sono e degli altri che negli anni verranno,
desideri inculare l’amor mio.
E non lo nascondi: non appena puoi, giocando da solo con lui,
ti strofini al suo fianco e le provi tutte.
Illuso: mentre architetti i tuoi agguati
io prima te lo ficcherò in bocca.
E se tu lo facessi da sazio, ancora potrei passarci sopra:
ma quel che ora mi fa incazzare è la tua fame immonda,
e che insegni al mio ragazzo, ah, che pena per me, ad aver sete.
Dunque finiscila qui, mentre sei ancora immacolato,
e non portarmi allo stremo, o continuerai con un cazzo in bocca.[5]
Catullo usa un linguaggio assolutamente esplicito anche quando parla dei suoi amori eterosessuali:
Ti amerò, mia dolce Ipsitilla,
mia delizia, mia incantatrice,
dimmi di venir da te a fare un riposino.
E se deciderai così, fammi questo favore,
non sprangare la porticina del tuo nido,
e non farti venir voglia di uscire,
ma resta in casa e preparati per
farci nove scopate ininterrotte.
In verità, se me lo vorrai chiedere, fallo subito:
giacché son qui sdraiato dopo pranzo e satollo pancia
all’aria col cazzo dritto sfondo tunica e mantello.[6]
Quando deve descrivere i nuovi amici della sua ex-amante (Lesbia) non ha ugualmente peli sulla lingua:
Voi, bestie che frequentate quell’immonda taverna,
nove colonne dopo il tempio di Càstore e Pollùce,
pensate di averlo solo voi il cazzo, che solo a voi,
qualunque fichetta si presenti, sia concesso
scoparverla mentre gli altri son tutti cornuti?
O forse, dal momento che sedete in cento o duecento
tutti in fila come deficienti, credete che non sarei capace
di ficcarvelo in bocca a tutti e duecento quanti siete?
E allora sappiatelo: sul muro fuori della taverna
scriverò che siete tutti dei gran cazzoni.
La mia donna, fuggita dalle mie braccia,
lei, amata quanto nessuna mai sarà amata,
in nome della quale ho combattuto così grandi battaglie,
siede lì, tra voi. Ve la sbattete a turno, quasi che foste onesti
e rispettabili, ma in realtà, ed è questa la cosa atroce,
siete un branco di mezze seghe fallite e puttanieri da strada;
e tu sei il primo, Ignazio, fra tutti quei capelloni,
nato tra gl’innumerevoli conigli della Celtiberia,
che credi d’esser bello nascosto dalla barba incolta
e ti sfreghi i denti sciacquandoli con l’urina.[7]
E sempre in relazione alla sua ex-amante Lesbia, così si esprime:
Lesbia, la mia Lesbia, Celio, quella Lesbia,
proprio lei, la sola che Catullo mai abbia amato
più di sé stesso e d’ogn’altra cosa a lui cara,
agli angoli delle strade e nel buio dei vicoletti
ora scappella i cazzi della fiera gioventù romana.[8]
In barba a tutti i moralisti, Catullo racconta un episodio molto particolare:
Oh che situazione ridicola, Catone, e divertente tanto
che merita tu l’ascolti e ne possa sghignazzare fragorosamente.
Non importa che tu ne rida, Catone, se vuoi bene a Catullo:
è una cosa comica e veramente bizzarra.
Ho incontrato un tipetto nel mentre ch’era intento a ficcarlo
in una fanciulla: io, a Venere piacendo,
col mio dardo ritto, è stato un attimo, l’ho inculato.[9]
Catullo attacca in modo molto violento un certo Gellio, probabilmente Lucio Gellio Publicola, che fu console per l’anno 36 a.C., insieme con Marco Cocceio Nerva, Gellio era stato portato dal padre stesso (uno dei comandanti della guerra servile contro Spartaco, prima di Crasso) davanti al Senato con l’accusa di incesto ma fu poi assolto. Catullo avvalora le accuse contro Gellio:
Come puoi, Gellio, spiegare perché queste tue labbrucce rosee
divengono più candide della neve d’inverno,
quando alla mattina esci di casa o quando nel primo pomeriggio
delle lunghe giornate estive ti ridesti dal pigro riposo?
Per certo non saprei come avvenga: ma potrebbe esser vero, qualcuno lo sussurra,
che sei un divoratore di quell’enorme arnese ch’esce dall’inguine di un uomo?
è così, di sicuro: lo gridano la schiena rotta di Vittore,
pover’uomo, e le tue labbra segnate dallo sperma che hai succhiato.[10]
E ancora, Catullo avvalora l’ipotesi di un incesto:
Come chiamare, Gellio, quello che si arrapa con madre e sorella
e buttati all’aria i vestiti rimane sveglio tutta la notte?
Come chiamarlo, quello che non consente allo zio d’esser marito?
Esiste un modo perché tu possa comprendere quanto scellerato sia il suo agire?
Una azione, Gellio, che non Teti lontana al di là d’ogni cosa
e neanche Oceano padre delle ninfe potrebbero lavare:
dato che nessuno conosce una qualunque depravazione che possa superar questa,
neanche se, chinato il capo, si succhiasse il suo stesso cazzo.[11]
Fin qui abbiamo visto un Catullo che usa un linguaggio molto colorito, zeppo di allusioni sessuali, ma non abbiamo ancora visto amori omosessuali di Catullo. Bene, nei Carmi si ravvisa un solo amore omosessuale di Catullo, per Giovenzio.
Catullo così si rivolge ad Aurelio, pregandolo di non cercare di sedurre Giovenzio:
Raccomando a te me ed i miei amori,
Aurelio. Ti chiedo un favore riservato,
che, se hai adocchiato qualcosa col tuo cuore,
e la vorresti casta ed integrotta,
mi salvaguardassi pudicamente il ragazzo,
non dico dal popolo – per nulla temiamo
quelli, che in piazza ora qua ora là
passano occupati in loro faccende -
ma temo da parte tua e del tuo cazzo
nefasto per i ragazzi sia buoni che cattivi.
Quando ti domina ficcalo dove e come vuoi
Se è ritto e sguainato,
Ti proibisco lui solo, non credo che sia molto.
Che se una brutta intenzione ed un furore pazzo
ti spingerà a sì grave colpa, disgraziato,
da aggredire con insidie la stessa mia persona…
oh allora povero te, per il misero destino!
Divaricate le gambe per quella porta
ti infilerò ravanelli e cefali.[12]
Quando Giovenzio si concede ad uno senza denaro né servi e Catullo reagisce così:
Io avrei voluto che tu, fior fiore
di tutti i Giovenzi che sono, furono
e saranno in tutti gli anni a venire,
avessi donato l’oro di Mida
a costui senza un servo né denari,
piuttosto che piegarti al suo amore.
‘Perché? non è affascinante?’ Certo,
lo è, ma senza un servo né denari.
Tu puoi minimizzare quanto vuoi,
ma resta senza un servo né denari.[13]
Ma Catullo è comunque innamorato di Giovenzio:
Se i tuoi occhi di miele, Giovenzio,
mi fosse lecito baciare,
migliaia di volte io li bacerei
e non potrei esserne mai sazio,
anche se più fitta di spighe mature
fosse la messe dei miei baci.[14]
Giovenzio si innamora di un ospite venuto da Pesaro che non piace affatto a Catullo, che reagisce così:
Possibile che fra tanti non vi fosse, Giovenzio,
un uomo garbato che tu desiderassi amare,
se non questo tuo ospite giunto da quel sepolcro
di Pesaro, più pallido di una statua dorata?
Ora lo tieni in cuore e ormai più di me stesso tu,
tu lo desideri: non sai che delitto commetti.[15]
L’amore di Catullo per Giovenzio non è ricambiato e un bacio rubato distrugge l’illusione di Catullo.
Mentre tu giocavi, dolcissimo Giovenzio,
io t’ho rubato un bacio più dolce del miele.
Ma l’ho pagato caro: crocifisso
per più di un’ora sono rimasto, ricordo,
a scusarmi con te senza che le mie lacrime
potessero spegnere la tua collera.
Subito ti sei asciugato le labbra umide
d’ogni goccia con tutte e due le mani,
perché non restasse traccia della mia bocca
quasi fosse la sborrata d’una puttana.
E m’hai fatto subire tutte le torture
d’amore, ogni supplizio possibile:
così quel bacio che m’era sembrato tanto
dolce, si è rivelato più amaro del fiele.
Se questa è la pena a cui condanni un amore
infelice, mai più ti ruberò un bacio.[16]
Come è diverso il linguaggio dell’amore dal linguaggio del gioco amoroso!
Ma veniamo ora a Tibullo. Tre Elegie di Tibullo sono a tema omosessuale e sono tutte dedicate allo stesso ragazzo, Màrato. Si tratta di componimenti molto più complessi e meno istintivi di quelli catulliani. La quarta elegia del primo libro è una vera “arte di amare” in campo omosessuale. Il dio Priapo dà consigli a Tibullo su come si possa costruire un rapporto d’amore con un ragazzo. La sessualità pare quasi passare in secondo piano. Priapo insegna ad avere pazienza, ad assecondare il proprio ragazzo, in pratica, a volergli bene, perché questo è il segreto dell’amore.
I 4, Tibullo, Il fuoco di Màrato
‘T’auguro, Priapo, di stare sotto una pergola ombrosa,
perché sole e neve non t’affliggano il capo.
Qual è l’abilità che hai nel sedurre i giovani in fiore?
Certo, non hai barba che splenda, capelli curati;
nudo te ne stai nel freddo della bruma invernale,
nudo nella siccità della canicola estiva.’
Così gli dissi; e il figlio di Bacco, rustico nume
armato della sua falce ricurva, così mi rispose:
‘Mai, non affidarti mai alla sensibilità dei giovani:
hanno sempre una scusa che giustifica l’amore.
Questo piace perché serrando le briglie frena il cavallo,
questo perché col petto di neve fende le onde tranquille,
questo ti prende perché come un prode dà prova d’audacia;
quello, invece, perché sulle sue guance morbide
ha diffuso un pudore verginale.
Ma tu non infastidirti se accade
che all’inizio si neghi: a poco a poco
offrirà lui stesso al giogo il suo collo.
Tempo occorre che i leoni imparino i comandi dell’uomo,
tempo occorre che le gocce d’acqua corrodano le pietre;
un anno su colline assolate e l’uva matura,
un anno con alternanza immutata
riporta le stelle lucenti.
Non temere di fare giuramenti:
il vento disperde gli spergiuri di Venere
per le terre e sul mare, rendendoli vani.
Grazie infinite a Giove! Il Padre stesso decretò
che non avesse valore il giuramento
pronunciato con passione da un insensato amante;
impunemente ti consente di giurare Diana
per le sue frecce e Minerva per le sue chiome.
Ma fallirai se agirai con lentezza:
passerà il tempo, e quanto presto!
Il giorno non indugia e non ritorna.
Quanto presto perde la terra i colori di porpora,
quanto presto il pioppo svettante le sue belle chiome!
Come giace il cavallo, che fuori dal recinto di Elea
un tempo si lanciava, quando viene
il fato della malferma vecchiaia.
Ho visto gente, ormai sotto il peso degli anni,
dolersi d’avere in gioventù con stoltezza
bruciato i propri giorni. O dei spietati!
Cambiando pelle il serpente si spoglia dei suoi anni,
ma alla bellezza i fati nessuna durata hanno concesso.
Solo a Bacco e Febo fu data eterna giovinezza
e solo a loro si addicono capelli folti e fluenti.
Tu, qualunque capriccio verrà in mente al tuo ragazzo,
cedi: con l’arrendevolezza
amore vincerà infiniti ostacoli.
Non rifiutare d’essergli compagno
per quanto sia lunga la strada
e l’arsura dell’estate bruci i campi di sete;
per quanto, orlando il cielo d’un tratto di porpora,
l’arcobaleno, che l’annuncia,
ammanti la pioggia imminente.
Se vorrà andare in barca sull’azzurro delle onde,
tu stesso coi remi spingi sull’acqua quel legno leggero.
Non lamentarti di subire fatiche inumane
o di logorarti le mani in lavori non tuoi;
se intende cingere di reti il fondo della valle,
pur di piacergli, non negarti di portarle in spalla.
Se preferisce la scherma, battiti con mano leggera,
offrendogli, perché vinca, il fianco scoperto.
Sarà remissivo allora con te
e potrai strappargli baci d’amore:
resisterà, ma poi te li darà come tu vuoi.
Prima dovrai carpirglieli, ma se lo preghi,
te li offrirà lui stesso e infine
vorrà cingerti il collo con le braccia.
Ahimè! questa generazione d’oggi
non ha riguardo alcuno per l’arte d’amare:
già in tenera età questi giovani
si sono abituati a chiedere regali.
Ma a te, che per primo insegnasti a vendere l’amore,
chiunque tu sia, sciagurato,
una pietra tombale pesi sulle ossa.
Amate le Pièridi, ragazzi, l’afflato dei poeti,
e sulle Pièridi non prevalgano i doni d’oro.
Grazie alla poesia, di porpora è la chioma di Niso;
se poesia non ci fosse,
non brillerebbe l’avorio sulla spalla di Pèlope.
Chi è celebrato dalle Muse
vivrà finché saranno querce sulla terra, stelle in cielo e acque nei fiumi.
Ma chi non ascolta le Muse e commercia l’amore,
dovrà seguire sull’Ida il carro di Opi,
riparare nei suoi vagabondaggi in trecento città
e recidersi il membro disprezzato
al ritmo del flauto di Frigia.
Venere stessa vuole che alle carezze si ceda,
accordando favore alle suppliche di chi si lamenta
e al pianto degli sventurati’.
Questo mi disse il dio, perché lo ripetessi a Tizio,
ma a lui la moglie impedisce di ricordarsene.
E Tizio le obbedisca! Ma come maestro
celebratemi voi, voi che uno scaltro giovinetto
maltratta continuamente con le sue arti.
A ciascuno la sua gloria; vengano a consultarmi
gli amanti respinti: per tutti è aperta la mia porta.
Tempo verrà, che una schiera attenta di giovani
mi seguirà, quando, ormai vecchio,
impartirò i precetti dell’amore.
Ahimè! di quale lento fuoco mi tortura Màrato!
Mi mancano le arti, mi mancano gli inganni.
Pietà, ragazzo, ti prego: che io con vergogna
non diventi la favola di tutti,
quando del mio sterile magistero rideranno.[17]
L’elegia 8 del primo libro mostra un aspetto del tutto particolare del rapporto tra Tibullo e Màrato. Màrato è innamorato di una ragazza, Fòloe, che però non condivide i suoi sentimenti, Màrato è disperato fino alle lacrime e Tibullo cerca di convincere Fòloe a lasciarsi amare da Màrato, perché lei è superba e fare soffrire un ragazzo per amore è una cosa che gli dei non lasceranno impunita.
I 8, Tibullo, A Fòloe per Màrato
Non mi è possibile certo ignorare
cosa annuncino il cenno di un innamorato
o le parole sussurrate con voce suadente:
non dispongo d’oracoli o di viscere
che rivelino il volere divino;
neppure il canto degli uccelli
mi predice il futuro;
ma Venere stessa, legandomi le braccia
con nodi magici alla schiena,
a suon di frusta m’ha istruito.
E non far finta di nulla: spietata
la dea brucia di piú chi contro voglia
vede piegarsi ai suoi comandi.
Che ti giova ormai aver cura dei tuoi capelli sottili,
cambiare continuamente la loro acconciatura,
imbellettare le guance di rosso vivo,
farti tagliare le unghie da chi per professione ha mano esperta?
Muti veste invano ormai, invano mantello,
invano stretti calzari comprimono i tuoi piedi.
Lei invece resta seducente,
anche se si presenta senza trucco in volto
o senza essersi acconciato il capo luminoso
con snervanti artifici.
Forse con incantesimi o con erbe,
che fanno impallidire,
ti ha stregato una vecchia
nel cuore silenzioso della notte?
Gli incantesimi al campo del vicino
sottraggono le biade;
gli incantesimi arrestano il cammino
del serpente irritato;
gli incantesimi tentano di trarre giú la luna
dal suo carro e ci riuscirebbero
se di colpi non tuonassero i bronzi.
Ma perché lagnarsi, se incantesimi o erbe
ti hanno per disgrazia nociuto?
A magici aiuti la beltà non ricorre:
ciò che ti nuoce è averne accarezzato il corpo,
averla baciata e baciata,
avere intrecciato alle sue gambe le tue.
Ma tu ricorda di non essere fredda con un ragazzo:
Venere infligge castighi a chi si mostra scontrosa.
E non chiedergli doni: questi deve offrirli
l’amante dai capelli bianchi per scaldare il torpore del suo membro
contro un morbido seno.
Un giovane è piú prezioso dell’oro,
gli brilla liscio il volto
e una barba irsuta non offende l’amplesso.
Sotto le sue spalle ponigli le tue braccia splendide
e fa’ che non esistano
le immense ricchezze dei re.
Trova Venere sempre il modo
che di nascosto il ragazzo giaccia con te
e, malgrado il timore, con ritmo incessante,
fecondi il tuo morbido grembo;
che anelando e tormentandoti con la lingua,
ti bagni di baci e sul collo
t’imprima il segno dei suoi morsi.
Non servono pietre preziose e gemme
a una donna che indifferente dorme sola
e di nessun uomo suscita il desiderio.
Troppo, troppo tardi si rimpiange l’amore,
troppo tardi la giovinezza,
quando la vecchiaia, guastandolo,
imbianca un volto segnato dagli anni.
Allora, allora si vorrebbe essere belli
e cambiare capigliatura,
perché, tinta col mallo verde della noce,
dissimuli i tuoi anni;
nasce allora la voglia di strappare
sin dalle radici i capelli bianchi e di mostrare un volto nuovo
lisciandosi la pelle.
Ma tu, finché l’età della giovinezza fiorisce,
approfittane: senza indugi, di corsa sparisce;
e non affliggere Màrato: che gloria ti reca
l’avere vinto un giovane?
Sii dura con i vegliardi, fanciulla, e
risparmia questo virgulto, ti prego.
Non è una malattia pericolosa,
ma un amore straziante
la causa del pallore che gli sbianca il volto.
Quante volte, anche in tua assenza,
ti rivolge quel poveretto i suoi mesti sospiri,
e ogni cosa intorno a lui si bagna di lacrime.
‘Perché mi disprezzi?’ dice. ‘I guardiani
potevamo eluderli: la divinità
a concesso agli amanti il dono dell’inganno.
Conosco l’amore furtivo:
so come si trattiene in un soffio il respiro,
so come si rubano i baci senza far rumore;
e sono in grado di strisciare
nel cuore della notte,
di aprire di nascosto e senza strepito una porta.
Ma queste astuzie che mi servono,
se spietata disprezza la fanciulla
l’innamorato infelice e fugge via dal suo letto?
E quand’anche promette
quella perfida subito m’inganna e a vegliare sono costretto
fra interminabili tormenti;
qualunque cosa si muova, quando sogno che venga,
m’illudo che sia il rumore dei suoi passi.’
Smettila di piangere, ragazzo: lei non si piega;
e stanchi ormai di lacrimare
si gonfiano i tuoi occhi.
T’avverto, Fòloe: gli dei odiano i superbi e
non serve offrire incenso ai loro focolari.
Màrato, proprio Màrato
un tempo derideva gli innamorati infelici,
ignaro che la vendetta divina gli stava alle spalle.
Dicono anche che spesso ridesse
delle lacrime di chi si doleva
e che tenesse a bada chi l’amava,
inventando pretesti;
ora detesta ogni tipo d’orgoglio,
ora l’amareggia qualunque porta
che ostinatamente sprangata gli si opponga.
Ma un castigo t’attende:
se non la smetti di far la superba,
quanto, quanto vorrai con i tuoi voti
richiamare a te questo giorno![18]
Il rapporto di Tibullo con Màrato non va in crisi nemmeno quando Màrato si innamora di una ragazza. Tibullo anche in quella occasione fa la sua parte cercando di fare in modo che il suo ragazzo possa sentirsi felice. C’è una cosa però che crea in Tubullo un vero momento di sconforto: Màrato la lo ha tradito, non per un ragazza ma per avidità di doni. Anche in questo caso Tibullo non riesce ad odiare il suo ragazzo e chiede agli dei di perdonare la sua menzogna. La vera colpa è del corruttore, non di Màrato. Al ragazzo, Tibullo, non aveva rimproverato il desiderio sessuale che lo spingeva verso una ragazza ma non riesce a perdonargli il tradimento che per desiderio di doni lo ha portato a compiacere un vecchio. Nel mondo omosessuale tibulliano c’è una regola di rispetto reciproco che non consiste nella fedeltà sessuale ma nella fedeltà morale al proprio amante: innamorarsi di una ragazza non distrugge il rapporto, ma dire il falso e tradire per denaro porta inevitabilmente, anche se dolorosamente, alla fine dei rapporto. In questi aspetti, psicologicamente, molto complessi e interessanti, Tibullo dimostra tutta la sua modernità e, direi, tutto lo spessore affettivo del suo eros omosessuale.
I 9, Tibullo, Il tradimento di Màrato
Se volevi tradire il mio amore infelice,
perché mai invocando gli dei giuravi,
per poi ingannarli di nascosto?
Infame! anche se sul momento
si può celare lo spergiuro,
alla fine il castigo arriva con passo felpato.
Fategli grazia, celesti: per una volta è giusto
che impunemente alla beltà sia lecito
offendere il vostro volere.
Per lucro il contadino aggioga i buoi
a un agevole aratro
e affretta il lavoro opprimente della terra;
per lucro attraverso le onde
navi malsicure in balia dei venti
da stelle fisse si fanno guidare;
e sedotto dai doni è il mio ragazzo.
Ma un dio quei doni li converta
in cenere e in acqua che scorre.
Tra breve me ne pagherà la pena:
la polvere gli toglierà bellezza,
al vento si scompiglierà la chioma,
al sole si bruceranno faccia e capelli,
un viaggio interminabile
gli logorerà i piedi troppo teneri.
Quante volte io l’ho ammonito:
‘Non contaminare con l’oro la bellezza:
nell’oro si celano spesso molti mali.
Con chi, preso dalle ricchezze, ha tradito l’amore
Venere diventa ispida e ostile.
Marchiami prima col fuoco la fronte,
feriscimi di spada,
solcami la schiena a colpi di frusta;
se ti accingi a peccare,
non illuderti di rimanere nascosto:
v’è un dio che impedisce agli inganni
di restare celati.
Un dio che permette allo schiavo,
per legge tenuto al silenzio,
di parlare liberamente
nell’ebbrezza del vino;
un dio che fa parlare
chi è in preda al sonno e suo malgrado
gli fa dire fatti che avrebbe voluto celare’.
Questo gli dicevo: ora mi vergogno
di aver parlato fra le lacrime,
mi vergogno d’essergli caduto ai giovani piedi.
Allora mi giuravi
che mai, mai avresti venduto la tua fedeltà
per gemme o somme ingenti di denaro,
nemmeno se in compenso
t’avessero offerto le terre di Campania
o l’agro Falerno, prediletto da Bacco.
Con quelle parole m’avresti strappato di mente
che in cielo splendono le stelle,
che vivide sono le vie del fulmine.
Anzi piangevi; ed io, incapace d’inganni,
nella mia credulità, di continuo
ti tergevo le guance umide di pianto.
Che mai farei, se anche tu
non ti fossi innamorato di una fanciulla?
Mi auguro che, sul tuo esempio,
sia frivola anche lei.
Quante volte, perché nessuno
conoscesse i vostri segreti,
portandoti il lume, nel buio della notte
ti sono stato io stesso compagno!
Grazie a me, quando piú non lo speravi,
quante volte è venuta lei da te,
nascondendosi, col capo velato,
dietro i battenti della porta!
Allora, sventurato, mi sono perduto,
fidando ciecamente d’essere riamato:
davanti ai tuoi lacci, potevo almeno
usare cautela maggiore.
Invece, con la mente ottenebrata,
cantavo le sue lodi, e per me, per le Pièridi
ora provo vergogna.
Come vorrei che Vulcano bruciasse
nell’impeto della fiamma quei canti
e la corrente di un fiume li cancellasse.
Tu, che pensi di vendere la tua bellezza
e di ricavarne a piene mani un gran prezzo,
sta’ lontano di qui. E di te invece, che con doni
hai osato corrompere il ragazzo,
rida senza rischi tua moglie
tradendoti continuamente,
e dopo aver sfiancato un giovane
in amplessi furtivi,
giaccia spossata con te, ponendo tra voi la veste.
Sempre ci siano nel tuo letto
impronte di persone estranee
e resti sempre la tua casa
spalancata alle voglie altrui;
né si possa mai stabilire
se tua sorella in un delirio di lussuria
beva più coppe o sfinisca più maschi.
Si sa come spesso fra i brindisi
prolunghi i suoi banchetti finché il cocchio di Lucifero
levandosi non riconduce il giorno.
Nessun’altra meglio di lei
saprebbe trascorrere le sue notti
o variare in mille modi gli amplessi.
L’ha imparato tua moglie,
e tu, balordo come pochi,
neppure te ne accorgi,
quando con arte inconsueta eccita il tuo corpo.
Credi forse che per te si acconci la chioma,
che per te con pettine fitto
ravvii i suoi capelli sottili?
Forse è il tuo volto che la induce a cingere d’oro le braccia,
a uscire avvolta in abiti di Tiro?
Non è certo per te, ma per un giovane
che vuole apparire graziosa,
un giovane per il quale manderebbe all’inferno
il patrimonio e la tua casa.
E non lo fa per vizio:
è il tuo corpo sformato dalla gotta,
è l’amplesso di un vecchio
che quella giovane raffinata rifugge.
Eppure è con lui che il mio ragazzo s’è steso:
di congiungersi con belve feroci,
di questo posso crederlo capace.
A un altro hai osato vendere carezze,
ch’erano mie, ad altri offrire,
insensato, i baci ch’erano miei.
E allora piangerai,
quando un altro giovinetto mi terrà avvinto
e regnerà superbo
su un regno ch’era tuo un tempo.
Gioia saranno allora per me le tue pene,
e appesa in onore dei meriti di Venere
una palma d’oro rammenterà la mia ventura:
‘Questa palma Tibullo,
liberato da un amore bugiardo,
ti dedica, pregandoti, o dea, di gradirla’.[19]

___________
[1] Callim. Epigr. 25 Pf
[2] Callimachus. Works. A.W. Mair. London: William Heinemann; New York: G.P. Putnam’s Sons. 1921.
[3] Callimaco, Epigramma XXV, nella traduzione di G. B. D’Alessio, Milano 2001.
[4] Catullo, Carme 16
Pedicabo ego vos et irrumabo,
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi, parum pudicum.
nam castum esse decet pium poetam
ipsum, versiculos nihil necesse est;
qui tum denique habent salem ac leporem,
si sunt molliculi ac parum pudici,
et quod pruriat incitare possunt,
non dico pueris, sed his pilosis
qui duros nequeunt movere lumbos.
vos, quod milia multa basiorum
legistis, male me marem putatis?
pedicabo ego vos et irrumabo.
[5] Catullo, Carme 21
Aureli, pater esuritionum,
non harum modo, sed quot aut fuerunt
aut sunt aut aliis erunt in annis,
pedicare cupis meos amores.
nec clam: nam simul es, iocaris una,
haerens ad latus omnia experiris.
frustra: nam insidias mihi instruentem
tangam te prior irrumatione.
atque id si faceres satur, tacerem:
nunc ipsum id doleo, quod esurire
me me puer et sitire discet.
quare desine, dum licet pudico,
ne finem facias, sed irrumatus.
[6] Catullo, Carme 32
Amabo, mea dulcis Ipsitilla,
meae deliciae, mei lepores,
iube ad te veniam meridiatum.
et si iusseris, illud adiuvato,
ne quis liminis obseret tabellam,
neu tibi lubeat foras abire,
sed domi maneas paresque nobis
novem continuas fututiones.
verum si quid ages, statim iubeto:
nam pransus iaceo et satur supinus
pertundo tunicamque palliumque.
[7] Catullo Carme 37
Salax taberna vosque contubernales,
a pilleatis nona fratribus pila,
solis putatis esse mentulas vobis,
solis licere, quidquid est puellarum,
confutuere et putare ceteros hircos?
an, continenter quod sedetis insulsi
centum an ducenti, non putatis ausurum
me una ducentos irrumare sessores?
atqui putate: namque totius vobis
frontem tabernae sopionibus scribam.
puella nam mi, quae meo sinu fugit,
amata tantum quantum amabitur nulla,
pro qua mihi sunt magna bella pugnata,
consedit istic. hanc boni beatique
omnes amatis, et quidem, quod indignum est,
omnes pusilli et semitarii moechi;
tu praeter omnes une de capillatis,
cuniculosae Celtiberiae fili,
Egnati. opaca quem bonum facit barba
et dens Hibera defricatus urina.
[8] Catullo, Carme 58
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa.
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.
[9] Catullo, Carme 56
O rem ridiculam, Cato, et iocosam,
dignamque auribus et tuo cachinno!
ride quidquid amas, Cato, Catullum:
res est ridicula et nimis iocosa.
deprendi modo pupulum puellae
trusantem; hunc ego, si placet Dionae,
protelo rigida mea cecidi.
[10] Catullo, Carme 80
Quid dicam, Gelli, quare rosea ista labella
hiberna fiant candidiora nive,
mane domo cum exis et cum te octava quiete
e molli longo suscitat hora die?
nescio quid certe est: an vere fama susurrat
grandia te medii tenta vorare viri?
sic certe est: clamant Victoris rupta miselli
ilia, et emulso labra notata sero.
[11] Catullo, Carme 88
Quid facit is, Gelli, qui cum matre atque sorore
prurit, et abiectis pervigilat tunicis?
quid facit is, patruum qui non sinit esse maritum?
ecquid scis quantum suscipiat sceleris?
suscipit, o Gelli, quantum non ultima Tethys
nec genitor Nympharum abluit Oceanus:
nam nihil est quicquam sceleris, quo prodeat ultra,
non si demisso se ipse voret capite.
[12] Catullo, Carmen 15
Commendo tibi me ac meos amores,
Aureli. veniam peto pudentem,
ut, si quicquam animo tuo cupisti,
quod castum expeteres et integellum,
conserves puerum mihi pudice,
non dico a populo– nihil veremur
istos, qui in platea modo huc modo illuc
in re praetereunt sua occupati–
verum a te metuo tuoque pene
infesto pueris bonis malisque.
quem tu qua lubet, ut lubet moveto
quantum vis, ubi erit foris paratum:
hunc unum excipio, ut puto, pudenter.
quod si te mala mens furorque vecors
in tantam impulerit, sceleste, culpam,
ut nostrum insidiis caput lacessas.
a tum te miserum malique fati!
quem attractis pedibus patente porta
percurrent raphanique mugilesque.
[13] Catullo, Carmi 24
O qui flosculus es Iuventiorum,
non horum modo, sed quot aut fuerunt
aut posthac aliis erunt in annis,
mallem divitias Midae dedisses
isti, cui neque servus est neque arca,
quam sic te sineres ab illo amari.
“qui? non est homo bellus?” inquies. est:
sed bello huic neque servus est neque arca.
hoc tu quam lubet abice elevaque:
nec servum tamen ille habet neque arcam.
[14] Catullo, Carmi 48
Mellitos oculos oculos tuos, Iuventi,
si quis me sinat usque basiare,
usque ad milia basiem trecenta
nec numquam videar satur futurus,
non si densior aridis aristis
sit nostrae seges osculationis.
[15] Catullo, Carmi 81
Nemone in tanto potuit populo esse, Iuventi,
bellus homo, quem tu diligere inciperes.
praeterquam iste tuus moribunda ab sede Pisauri
hospes inaurata palladior statua,
qui tibi nunc cordi est, quem tu praeponere nobis
audes, et nescis quod facinus facias?
[16] Catullo, Carmi 99
Surripui tibi, dum ludis, mellite Iuventi,
suaviolum dulci dulcius ambrosia.
verum id non impune tuli: namque amplius horam
suffixum in summa me memini esse cruce,
dum tibi me purgo nec possum fletibus ullis
tantillum vestrae demere saevitiae.
nam simul id factum est, multis diluta labella
guttis abstersisti omnibus articulis,
ne quicquam nostro contractum ex ore maneret,
tamquam commictae spurca saliva lupae.
praeterea infesto miserum me tradere amori
non cessasti omnique excruciare modo,
ut mi ex ambrosia mutatum iam foret illud
suaviolum tristi tristius elleboro.
quam quoniam poenam misero proponis amori,
numquam iam posthac basia surripiam.
[17] Tibullo, Elegie I, 4
‘Sic umbrosa tibi contingant tecta, Priape,
Ne capiti soles, ne noceantque nives:
Quae tua formosos cepit sollertia? certe
Non tibi barba nitet, non tibi culta coma est,
Nudus et hibernae producis frigora brumae, 5
Nudus et aestivi tempora sicca Canis.’
Sic ego; tum Bacchi respondit rustica proles
Armatus curva sic mihi falce deus:
‘O fuge te tenerae puerorum credere turbae,
Nam causam iusti semper amoris habent. 10
Hic placet, angustis quod equom conpescit habenis,
Hic placidam niveo pectore pellit aquam,
Hic, quia fortis adest audacia, cepit; at illi
Virgineus teneras stat pudor ante genas.
Sed ne te capiant, primo si forte negabit, 15
Taedia: paulatim sub iuga colla dabit.
Longa dies homini docuit parere leones,
Longa dies molli saxa peredit aqua;
Annus in apricis maturat collibus uvas,
Annus agit certa lucida signa vice. 20
Nec iurare time: Veneris periuria venti
Inrita per terras et freta summa ferunt.
Gratia magna Iovi: vetuit pater ipse valere,
Iurasset cupide quicquid ineptus amor,
Perque suas inpune sinit Dictynna sagittas 25
Adfirmes crines perque Minerva suos.
At si tardus eris, errabis: transiet aetas.
Quam cito non segnis stat remeatque dies,
Quam cito purpureos deperdit terra colores,
Quam cito formosas populus alta comas! 30
Quam iacet, infirmae venere ubi fata senectae,
Qui prior Eleo est carcere missus equos!
Vidi iam iuvenem, premeret cum serior aetas,
Maerentem stultos praeteriisse dies.
Crudeles divi! serpens novus exuit annos, 35
Formae non ullam fata dedere moram.
Solis aeterna est Baccho Phoeboque iuventas,
Nam decet intonsus crinis utrumque deum.
Tu, puero quodcumque tuo temptare libebit,
Cedas: obsequio plurima vincet amor. 40
Neu comes ire neges, quamvis via longa paretur
Et Canis arenti torreat arva siti,
Quamvis praetexens picta ferrugine caelum
Venturam anticipet imbrifer arcus aquam.
Vel si caeruleas puppi volet ire per undas, 45
Ipse levem remo per freta pelle ratem.
Nec te paeniteat duros subiisse labores
Aut opera insuetas adteruisse manus,
Nec, velit insidiis altas si claudere valles,
Dum placeas, umeri retia ferre negent. 50
Si volet arma, levi temptabis ludere dextra:
Saepe dabis nudum, vincat ut ille, latus.
Tum tibi mitis erit, rapias tum cara licebit
Oscula: pugnabit, sed tamen apta dabit.
Rapta dabit primo, post adferet ipse roganti, 55
Post etiam collo se inplicuisse velit.
Heu male nunc artes miseras haec saecula tractant:
Iam tener adsuevit munera velle puer.
At tu, qui venerem docuisti vendere primus,
Quisquis es, infelix urgeat ossa lapis. 60
Pieridas, pueri, doctos et amate poetas,
Aurea nec superent munera Pieridas.
Carmine purpurea est Nisi coma: carmina ni sint,
Ex umero Pelopis non nituisset ebur.
Quem referent Musae, vivet, dum robora tellus, 65
Dum caelum stellas, dum vehet amnis aquas.
At qui non audit Musas, qui vendit amorem,
Idaeae currus ille sequatur Opis
Et tercentenas erroribus expleat urbes
Et secet ad Phrygios vilia membra modos. 70
Blanditiis volt esse locum Venus ipsa: querelis
Supplicibus, miseris fletibus illa favet.’
Haec mihi, quae canerem Titio, deus edidit ore,
Sed Titium coniunx haec meminisse vetat.
Pareat ille suae; vos me celebrate magistrum, 75
Quos male habet multa callidus arte puer.
Gloria cuique sua est: me, qui spernentur, amantes
Consultent: cunctis ianua nostra patet.
Tempus erit, cum me Veneris praecepta ferentem
Deducat iuvenum sedula turba senem. 80
Heu heu quam Marathus lento me torquet amore!
Deficiunt artes, deficiuntque doli.
Parce, puer, quaeso, ne turpis fabula fiam,
Cum mea ridebunt vana magisteria.
[18] Tibullo, Elegie I, 8
Non ego celari possum, quid nutus amantis
Quidve ferant miti lenia verba sono.
Nec mihi sunt sortes nec conscia fibra deorum,
Praecinit eventus nec mihi cantus avis:
Ipsa Venus magico religatum bracchia nodo 5
Perdocuit multis non sine verberibus.
Desine dissimulare: deus crudelius urit,
Quos videt invitos subcubuisse sibi.
Quid tibi nunc molles prodest coluisse capillos
Saepeque mutatas disposuisse comas, 10
Quid fuco splendente genas ornare, quid ungues
Artificis docta subsecuisse manu?
Frustra iam vestes, frustra mutantur amictus,
Ansaque conpressos conligat arta pedes.
Illa placet, quamvis inculto venerit ore 15
Nec nitidum tarda compserit arte caput.
Num te carminibus, num te pallentibus herbis
Devovit tacito tempore noctis anus?
Cantus vicinis fruges traducit ab agris,
Cantus et iratae detinet anguis iter, 20
Cantus et e curru Lunam deducere temptat
Et faceret, si non aera repulsa sonent.
Quid queror heu misero carmen nocuisse, quid herbas?
Forma nihil magicis utitur auxiliis:
Sed corpus tetigisse nocet, sed longa dedisse 25
Oscula, sed femori conseruisse femur.
Nec tu difficilis puero tamen esse memento:
Persequitur poenis tristia facta Venus.
Munera ne poscas: det munera canus amator,
Ut foveat molli frigida membra sinu. 30
Carior est auro iuvenis, cui levia fulgent
Ora nec amplexus aspera barba terit.
Huic tu candentes umero subpone lacertos,
Et regum magnae despiciantur opes.
At Venus invenit puero concumbere furtim, 35
Dum timet et teneros conserit usque sinus,
Et dare anhelanti pugnantibus umida linguis
Oscula et in collo figere dente notas.
Non lapis hanc gemmaeque iuvant, quae frigore sola
Dormiat et nulli sit cupienda viro. 40
Heu sero revocatur amor seroque iuventas,
Cum vetus infecit cana senecta caput.
Tum studium formae est: coma tum mutatur, ut annos
Dissimulet viridi cortice tincta nucis;
Tollere tum cura est albos a stirpe capillos 45
Et faciem dempta pelle referre novam.
At tu, dum primi floret tibi temporis aetas,
Utere: non tardo labitur illa pede.
Neu Marathum torque: puero quae gloria victo est?
In veteres esto dura, puella, senes. 50
Parce precor tenero: non illi sontica causa est,
Sed nimius luto corpora tingit amor.
Vel miser absenti maestas quam saepe querelas
Conicit, et lacrimis omnia plena madent!
‘Quid me spernis?’ ait. ‘poterat custodia vinci: 55
Ipse dedit cupidis fallere posse deus.
Nota venus furtiva mihi est, ut lenis agatur
Spiritus, ut nec dent oscula rapta sonum;
Et possum media quamvis obrepere nocte
Et strepitu nullo clam reserare fores. 60
Quid prosunt artes, miserum si spernit amantem
Et fugit ex ipso saeva puella toro?
Vel cum promittit, subito sed perfida fallit,
Est mihi nox multis evigilanda malis.
Dum mihi venturam fingo, quodcumque movetur, 65
Illius credo tunc sonuisse pedes.’
Desistas lacrimare, puer: non frangitur illa,
Et tua iam fletu lumina fessa tument.
Oderunt, Pholoe, moneo, fastidia divi,
Nec prodest sanctis tura dedisse focis. 70
Hic Marathus quondam miseros ludebat amantes,
Nescius ultorem post caput esse deum;
Saepe etiam lacrimas fertur risisse dolentis
Et cupidum ficta detinuisse mora:
Nunc omnes odit fastus, nunc displicet illi 75
Quaecumque obposita est ianua dura sera.
At te poena manet, ni desinis esse superba.
Quam cupies votis hunc revocare diem!
[19] Tibullo, Elegie I, 9
Quid mihi si fueras miseros laesurus amores,
Foedera per divos, clam violanda, dabas?
A miser, et siquis primo periuria celat,
Sera tamen tacitis Poena venit pedibus.
Parcite, caelestes: aequum est inpune licere 5
Numina formosis laedere vestra semel.
Lucra petens habili tauros adiungit aratro
Et durum terrae rusticus urget opus,
Lucra petituras freta per parentia ventis
Ducunt instabiles sidera certa rates: 10
Muneribus meus est captus puer, at deus illa
In cunerem et liquidas munera vertat aquas.
Iam mihi persolvet poenas, pulvisque decorem
Detrahet et ventis horrida facta coma;
Uretur facies, urentur sole capilli, 15
Deteret invalidos et via longa pedes.
Admonui quotiens ‘auro ne pollue formam:
Saepe solent auro multa subesse mala.
Divitiis captus siquis violavit amorem,
Asperaque est illi difficilisque Venus. 20
Ure meum potius flamma caput et pete ferro
Corpus et intorto verbere terga seca.
Nec tibi celandi spes sit peccare paranti:
Est deus, occultos qui vetat esse dolos.
Ipse deus tacito permisit lene ministro, 25
Ederet ut multo libera verba mero;
Ipse deus somno domitos emittere vocem
Iussit et invitos facta tegenda loqui.’
Haec ego dicebam: nunc me flevisse loquentem,
Nunc pudet ad teneros procubuisse pedes. 30
Tum mihi iurabas nullo te divitis auri
Pondere, non gemmis, vendere velle fidem,
Non tibi si pretium Campania terra daretur,
Non tibi si, Bacchi cura, Falernus ager.
Illis eriperes verbis mihi sidera caeli 35
Lucere et puras fulminis esse vias.
Quin etiam flebas: at non ego fallere doctus
Tergebam umentes credulus usque genas.
Quid faciam, nisi et ipse fores in amore puellae?
Sed precor exemplo sit levis illa tuo. 40
O quotiens, verbis ne quisquam conscius esset,
Ipse comes multa lumina nocte tuli!
Saepe insperanti venit tibi munere nostro
Et latuit clausas post adoperta fores.
Tum miser interii, stulte confisus amari: 45
Nam poteram ad laqueos cautior esse tuos.
Quin etiam adtonita laudes tibi mente canebam,
Et me nunc nostri Pieridumque pudet.
Illa velim rapida Volcanus carmina flamma
Torreat et liquida deleat amnis aqua. 50
Tu procul hinc absis, cui formam vendere cura est
Et pretium plena grande referre manu.
At te, qui puerum donis corrumpere es ausus,
Rideat adsiduis uxor inulta dolis,
Et cum furtivo iuvenem lassaverit usu, 55
Tecum interposita languida veste cubet.
Semper sint externa tuo vestigia lecto,
Et pateat cupidis semper aperta domus;
Nec lasciva soror dicatur plura bibisse
Pocula vel plures emeruisse viros. 60
Illam saepe ferunt convivia ducere Baccho,
Dum rota Luciferi provocet orta diem.
Illa nulla queat melius consumere noctem
Aut operum varias disposuisse vices.
At tua perdidicit, nec tu, stultissime, sentis, 65
Cum tibi non solita corpus ab arte movet.
Tune putas illam pro te disponere crines
Aut tenues denso pectere dente comas?
Ista haec persuadet facies, auroque lacertos
Vinciat et Tyrio prodeat apta sinu? 70
Non tibi, sed iuveni cuidam volt bella videri,
Devoveat pro quo remque domumque tuam.
Nec facit hoc vitio, sed corpora foeda podagra
Et senis amplexus culta puella fugit.
Huic tamen adcubuit noster puer: hunc ego credam 75
Cum trucibus venerem iungere posse feris.
Blanditiasne meas aliis tu vendere es ausus?
Tune aliis demens oscula ferre mea?
Tum flebis, cum me vinctum puer alter habebit
Et geret in regno regna superba tuo. 80
At tua tum me poena iuvet, Venerique merenti
Fixa notet casus aurea palma meos:
‘Hanc tibi fallaci resolutus amore Tibullus
Dedicat et grata sis, dea, mente rogat’.
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